Criticata e osannata, Bridgerton è la serie TV di Netflix in otto episodi che ha tenuto compagnia durante le feste natalizie, occupando sin da subito il primo posto della classifica dei titoli più visti sulla piattaforma on demand. Un vero e proprio fenomeno, di cui si parlerà a lungo e che ha già consacrato i suoi protagonisti, gli attori Phoebe Dynevor e René-Jean Page, rispettivamente Daphne Bridgerton e Simon Hastings.
La trama di Bridgerton
Ambientata all’inizio del diciannovesimo secolo nella rigorosa campagna inglese, è la storia della famiglia Bridgerton alla ricerca del giusto pretendente per la figlia, Daphne. In realtà, la serie è anche altro. Nel confezionarla, Shonda Rhimes ha voluto mettere insieme diversi elementi, forse troppi, per offrire uno specchio dell’epoca e della condizione della donna. Non solo. Ha immaginato un mondo diverso da quello che è stato, tentando di riscrivere la storia, seppure in chiave romantica.
Il risultato è un pot-pourri, un condensato di tanti vorrei ma non posso, ma andiamo per ordine. La trama convince fino a un certo punto, perché vanno bene gli intrighi, le convenzioni sociali e il fil rouge di tutte le fiabe, ovvero, l’amore vince su tutto, ma poi cede il passo al mix di cui sopra.
A metà tra Piccole donne e 50 Sfumature di grigio
L’assunto iniziale, e cioè la condizione della donna, la cui vita è ‘ridotta al singolo momento’ (come dice Daphne) in cui è esposta su piazza alla ricerca di un buon marito, perde di forza con gli episodi. Viene inserito di tutto. Vi è la sorella ribelle che rifugge le convenzioni, una piccola Jo March di Piccole Donne, che la ricorda in tutto e per tutto. Vi è Daphne, che da ragazza ingenua stretta negli obblighi sociali, si rivela attaccata agli stessi e fa di tutto per non macchiarsi di infamie e pregiudizi. Infine, vi è una abbondante dose di 50 Sfumature di grigio che trasformano il romanzo in costume Bridgerton in un romanzo Harmony ad alto tasso di erotismo, neanche tanto velato.
Ultimo, ma non ultimo, la riscrittura della storia. Brigerton è ambientato nella chiusa società inglese dell’età della Reggenza. Ciò nonostante, Shonda Rhimes fa un tentativo di modernizzazione e racconta ciò che avrebbe dovuto essere, ma non è stato.
La società multietnica di Bridgerton
La società inglese è volutamente multietnica. Oltre alla favola dell’amore che vince su tutto, vi è quella del re che si innamora di una donna nera e le sorti del mondo cambiano per sempre. Lo stesso vale per l’aristocrazia in generale. Bianchi e neri convivono pacificamente nella bolla Bridgerton.
Una visione positiva e edulcorata della storia. Un esperimento che strizza l’occhio ai tempi attuali e che trasforma Bridgerton da serie storica a serie leggera, romantica, adatta a chi vuole sognare e concedersi qualche ora di svago. René-Jean Page, poi, ha immediatamente ottenuto la consacrazione di sex symbol, e a ragione. È bello e dal fisico prestante: impossibile resistergli.
Il politically correct a tutti i costi
Detto ciò, Bridgerton reca con sé un problema di fondo: la voglia di sposare a tutti i costi il politically correct. Un’idea giusta se funzionale alla creazione di una serie tv romantica, senza troppe pretese. Un po’ fuorviante se ci si pone l’obiettivo di riprodurre un’epoca storica. In questo caso, l’esperimento è da considerarsi fallimentare.
Bridgerton racconta una storia che storia non è. Netflix è stata innovativa e perfettamente in linea con ciò che i tempi richiedono. Una scelta giusta per un colosso che sceglie di essere incisivo e di raccontare molteplici sfaccettature della società. Non bisogna, però, eccedere. In medio stat virtus, dicevano gli antichi.
Il rischio di cancellare il passato
Il passato non va cancellato, ma studiato e tramandato per non ripetere i medesimi errori in futuro. È come se improvvisamente si cancellassero dai libri di storia gli eccidi dall’antica Grecia ad oggi. Come se edulcorassimo le grandi guerre, le rivoluzioni, i regimi e le infamie partoriti dall’uomo.
Non parleremo più di ghigliottina, ma di morte naturale? Giordano Bruno non è morto bruciato al rogo, ma di malattia? La schiavitù non è mai esistita? Così facendo, parleremo della colonizzazione come di una joint venture pacifica e di Auschwitz non come campo di sterminio (di vite umane!), bensì come un hotel in cui gli ebrei decidevano di ritirarsi a vita privata? Gli esempi sono volutamente delle iperboli per sottolineare i rischi del politically correct.
Esso va bene nella misura in cui la diplomazia sia mezzo di unione, di incontro, di tolleranza. Diventa un’arma a doppio taglio, pericolosa, se tende invece a rimuovere ciò che di brutto è esistito nel passato per raccontare una storia diversa, romanzata.
La storia è il vero patrimonio dell’umanità, l’unico che sia possibile tramandare, possibilmente in modo meno parziale possibile. Cancellare, oscurare, ignorare, censurare la storia equivale a lasciare alle generazioni future un mondo fittizio, una realtà falsata che rischia di piegarsi su sé stessa al primo alito di vento.
Mostrare oggi una società inglese aperta a una aristocrazia nera è fuorviante e, soprattutto, distonico. Chi guarda Bridgerton e non conosce la storia potrebbe anche pensare che l’Inghilterra di Jane Austen fosse un piccolo eldorado. Una società affermata che si scontra con quella attuale, frastagliata e fagocitata dal razzismo e dalle polarizzazioni.
Vi è da dire che Bridgerton è pur sempre una serie TV romanzata, tratta da una saga bestseller. In quanto tale, la licenza poetica è sempre consentita e, anzi, doverosa se tende a instillare in chi la guarda semi importanti per un futuro migliore. Non se si pone l’obiettivo di rappresentare un preciso momento storico ignorando le brutture che lo hanno caratterizzato.
Photo credits: Ufficio stampa Netflix